Notturno
“Se le stelle apparissero una sola notte ogni mille anni, come gli uomini potrebbero credere e adorare, e serbare per molte generazioni la rimembranza della città di Dio?”
Emerson
Aton 77, direttore dell’Università di Saro, sporse il labbro inferiore con bellicoso cipiglio e fissò il giovane giornalista con occhi che brillavano di collera. Theremon 762 sostenne quello sguardo d’ira senza scomporsi. Fin dagli inizi, quando la sua rubrica, che ormai andava a ruba, era soltanto un’idea folle nella mente di un cronista ancora cucciolo, si era specializzato in interviste “impossibili”. Gli era costato ammaccature, occhi pesti e ossa rotte; ma gli era servito a crearsi un’ampia riserva di freddezza e di sicurezza di sé. Così abbassò la mano tesa che era stata ostentatamente ignorata e, con calma, aspettò che l’anziano direttore avesse il tempo di inghiottire il rospo. Gli astronomi erano gente strana, del resto, e se le azioni di Aton degli ultimi due mesi significavano qualcosa, Aton stesso era il più pazzo di tutti. Aton 77 ritrovò la voce e, sebbene questa gli tremasse per la collera repressa, la fraseologia guardinga, un po’ da pedante, per la quale il famoso astronomo era noto, non lo abbandonò. «Signore», disse, «lei dà prova di un’improntitudine infernale nel venire da me con questa sua proposta impudente.» Il grosso telefotografo dell’Osservatorio, Beenay 25, spinse la punta della lingua attraverso le labbra aride e s’intromise nervosamente: «Via, signor direttore, in fin dei conti…» Il direttore si girò verso di lui e sollevò un candido sopracciglio. «Non interferisca, Beenay. Le do atto delle migliori intenzioni nell’aver fatto entrare quest’uomo; ma non tollererò insubordinazioni, a questo punto.»Theremon si disse che era il momento di farsi avanti. «Direttore Aton, se lei mi lasciasse finire quello che stavo per dirle, penso che…» «Io invece non credo, giovanotto» lo interruppe Aton, «che quanto lei potrebbe dire ora conterebbe molto, paragonato alle sue rubriche giornaliere di questi ultimi sei mesi. Lei ha guidato una vasta campagna di stampa contro gli sforzi, miei e dei miei colleghi, volti a organizzare il mondo contro una minaccia che ormai non è più possibile evitare. Ha fatto del suo meglio, con i suoi attacchi altamente personali, per rendere oggetto di ridicolo il personale di questo Osservatorio.» Il direttore prese dal tavolo una copia del Chronicle di Saro City e l’agitò furiosamente in direzione di Theremon. «Perfino un individuo della sua ben nota impudenza dovrebbe esitare prima di venire da me, a chiedere che io gli conceda di riferire sugli avvenimenti di oggi al suo giornale. Tra tanti giornalisti, proprio lei!» Aton scaraventò il giornale a terra, andò a passi concitati verso la finestra e intrecciò le mani dietro di sé. «Può anche andarsene, ora» scattò, girando appena la testa. Fissava cupamente il cielo dove Gamma, il più luminoso dei sei soli del pianeta, stava calando. Appariva già sbiadito e ingiallito nella nebbia dell’orizzonte, e Aton sapeva che non l’avrebbe contemplato mai più da uomo sano di mente.Si girò di scatto. «No, aspetti, venga qui.» Fece un gesto perentorio. «Le darò il materiale per l’articolo.» L’uomo della stampa non aveva neppure lontanamente accennato ad andarsene, e ora si avvicinò lentamente all’astronomo. Aton indicò un punto all’esterno. «Di sei soli, soltanto Beta è rimasto nel cielo. Lo vede?» La domanda era piuttosto superflua. Beta era quasi allo zenith, la sua luce rossastra inondava il paesaggio di un colore arancione insolito, mentre i raggi brillanti di Gamma si spegnevano. Beta era all’afelio. Sembrava piccolo; più piccolo di come Theremon l’avesse mai visto e, per il momento, era il dominatore incontrastato del cielo di Lagash. Il vero sole di Lagash, Alpha, quello intorno al quale il pianeta ruotava, era agli antipodi, e così le altre due coppie di soli più distanti. Il nano e rosso Beta l’immediato compagno di Alpha era solo, tristemente solo. La faccia di Aton, rivolta verso l’alto, sembrava rossa e accesa dal sole. «In poco meno di quattro ore la civilizzazione, così come noi la conosciamo, arriverà alla sua fine. E accadrà perché, come lei vede, Beta è l’unico sole rimasto nel cielo.» Aton sorrise, trucemente. «Lo scriva! Non ci sarà nessuno, a leggerlo.» «Ma se, all’atto pratico, le quattro ore passano, e poi altre quattro, senza che succeda niente?» domandò Theremon in tono pacato. «Oh, no, non si preoccupi. Succederà di tutto.» «Siamo d’accordo! E tuttavia… se non accadesse niente?» Per la seconda volta, Beenay 25 parlò: «Direttore, penso che dovrebbe ascoltarlo.» «Mettiamo la cosa ai voti, direttore Aton» suggerì Theremon. Si diffuse un mormorio tra gli altri cinque membri del personale dell’Osservatorio, che fino a quel momento avevano mantenuto un atteggiamento di prudente neutralità. «Non sarà necessario» dichiarò Aton, in tono deciso. Estrasse l’orologio dal taschino. «Dato che il suo buon amico, Beenay, si mostra così pressante, le accorderò cinque minuti. Parli, prego.» «Bene! Allora, che differenza farebbe, se lei mi permettesse di scrivere un resoconto testimoniale di ciò che sta per accadere? Se la sua predizione si avvererà, la mia presenza non causerà nessun danno poiché, in tal caso, il mio articolo non verrebbe mai scritto. D’altra parte, se non dovesse accadere niente, lei ugualmente dovrà aspettarsi il ridicolo, o peggio. Sarebbe forse saggio lasciare quel ridicolo in mani amiche.» Aton fece un gesto sprezzante. «Allude alle sue, quando parla di mani amiche?» «Certamente!» Theremon sedette e accavallò le gambe. «I miei colleghi saranno stati anche piuttosto villani, io però non ho mai mancato di concedere a voialtri astronomi il beneficio del dubbio. In fin dei conti, non è questo il secolo per predicare a tutto Lagash: “La fine del mondo è alle porte.” Bisogna rendersi conto che la gente non crede più al Libro delle Rivelazioni e che è irritante vedere gli scienziati fare un improvviso voltafaccia e dirci che i cultisti, tutto sommato, hanno ragione…» «Lasciamo andare questi discorsi, giovanotto» lo interruppe Aton. «Se è vero che una gran parte dei nostri dati ci è stata fornita dal Culto, è anche vero che i nostri risultati non contengono alcun elemento mistico. I fatti sono fatti, e la cosiddetta mitologia del Culto ha alcuni fatti certi dietro di sé. Li abbiamo portati alla luce, lacerando il mistero che li avvolgeva. Le assicuro che il Culto, ora, ci odia anche più di voi della stampa.» «Io non vi odio. Sto solo cercando di spiegare che l’opinione pubblica è irritata. C’è un malumore diffuso, tra i lettori.» Aton storse le labbra in una smorfia di derisione. «Lasci che si irritino.» «Sì ma… e domani?» «Non ci sarà domani!» «Ma se poi ci sarà? Ammettiamo che ci sia, tanto per vedere che cosa può succedere. Quell’irritazione potrebbe trasformarsi in qualcosa di più serio. In fin dei conti, gli affari hanno registrato un crollo, in questi due mesi. I finanziatori non credono veramente che il mondo stia per finire ma, in attesa di vedere che cosa accadrà, si tengono ben stretto il loro denaro. Nemmeno l’uomo della strada ci crede, ma prima di rifornirsi per la nuova stagione preferisce aspettare un po’: non si sa mai. Mi ha già capito, penso. Non appena superata questa storia, quelli che sono stati lesi nei loro interessi chiederanno a voi scienziati di renderne conto. Diranno che, se alcuni pazzi chiedo scusa possono sconvolgere la prosperità del paese ogni qualvolta salti loro in testa, tirando fuori previsioni campate in aria, il pianeta deve impedire che questo avvenga. L’ira divamperà, caro signore.» Il direttore squadrava severamente il giornalista. «E lei che cosa proporrebbe di fare, per salvare la situazione?» «Be’…» Theremon sorrise «mi proponevo di prendere in mano la pubblicità. Posso manovrare in modo che soltanto il lato ridicolo risulti evidente. Non sarà piacevole, lo so, perché mi toccherà fare di tutti voi una massa di idioti capaci solo di parlare a vanvera; ma, se riuscirò a fare in modo che si rida di voi, forse l’ira sfumerà. In cambio, tutto quello che il mio editore chiede è l’esclusiva della notizia.» Beenay, che assentiva, non seppe tenersi: «Direttore, tutti noi pensiamo che abbia ragione lui. In questi due mesi, ci siamo occupati di tutto tranne che di quella probabilità su un milione che ci sia un errore nella nostra teoria o nei nostri calcoli. Sarebbe giusto pensare anche a quella.» Dal gruppo degli uomini intorno al tavolo, si levò un mormorio di consenso, e l’espressione di Aton divenne quella di chi ha qualcosa di amaro in gola e non riesce a mandarlo giù. «In tal caso rimanga pure, se lo desidera. La prego, però, di astenersi gentilmente dall’intralciare in qualsiasi modo le nostre mansioni. Tenga presente, inoltre, che qui tutto dipende da me e, nonostante le opinioni espresse nei suoi articoli, mi aspetto da parte sua piena collaborazione e assoluto rispetto…» Teneva le mani dietro la schiena, mentre parlava, e spingeva in avanti la faccia rugosa, con aria di determinazione. Avrebbe forse continuato così per un pezzo, se una voce nuova non si fosse intromessa. «Salve, salve, salve!» si udì, un po’ in falsetto, mentre le guance del nuovo arrivato si allargavano in un sorriso soddisfatto. «Cos’è questa atmosfera da obitorio, qui dentro? Nessuno si starà perdendo di coraggio, spero.» Aton lo fissava, costernato, poi disse in tono stizzito: «Cosa diavolo viene a fare qui, Sheerin? Credevo volesse restare con gli altri, nel Rifugio.» Sheerin rise, si lasciò cadere di peso su una sedia. «All’inferno il Rifugio! Mi annoiavo a morte, là dentro. Volevo essere qui, dove la situazione comincia a farsi rovente. Non crede che anch’io abbia la mia parte di curiosità? Voglio vederle, queste Stelle di cui tanto parlano i cultisti.» Si fregò le mani e continuò, in tono più serio: «Si gela, fuori. C’è un vento che ti fa venire i ghiaccioli nel naso. Beta, distante com’è, non riesce a scaldare nemmeno un po’.» Il canuto direttore digrignava i denti, esasperato. «Perché fa di tutto per commettere sciocchezze, Sheerin? A che cosa serve, la sua presenza qui?» «E a che cosa servo là, allora?» Sheerin allargava le dita con comica rassegnazione. «Uno psicologo non è che un peso morto, nel Rifugio. Là occorrono uomini d’azione e donne sane e robuste che possano mettere al mondo figli. Io? Io peso quaranta chili di troppo per essere un uomo d’azione e, quanto al mettere al mondo figli, non credo di valere granché. E allora perché aggiungere una bocca in più da sfamare? Mi sento più a mio agio, qui.» Theremon parlò in tono sbrigativo. «Che cos’è esattamente il Rifugio, signore?» Sheerin parve accorgersi soltanto allora del giornalista. Aggrottò la fronte e gonfiò le guance. «E lei, se è lecito, chi sarebbe, testa rossa?» Aton strinse le labbra, poi mormorò, imbronciato: «È Theremon 762, quel tale della stampa. L’avrà sentito nominare, immagino.» Il giornalista tese la mano. «E lei, immagino, è Sheerin 501, dell’Università di Saro. La conosco di fama.» Poi, ripeté: «Mi dica, che cos’è il Rifugio?» «Ecco» cominciò a spiegare Sheerin, «siamo riusciti a convincere alcune persone della validità della nostra profezia di… uhm… di Apocalisse, tanto per usare un termine spettacolare, e quelle poche hanno preso le misure del caso. Si tratta più che altro dei familiari del personale dell’Osservatorio, di alcuni elementi dell’Università di Saro e di qualche estraneo. Nel complesso, saranno un trecento persone, ma per tre quarti si tratta di donne e bambini.» «Capisco! Dovranno rimanere nascosti dove l’Oscurità e le… sì, ecco, le Stelle non possano raggiungerli, e là sopravvivere quando il resto del mondo sparirà nel nulla.» «Se ce la faranno. Non sarà facile. Quando il resto dell’umanità sarà in preda alla follia, quando le grandi città andranno in fiamme, l’ambiente non sarà certo adatto alla sopravvivenza. In ogni modo, là hanno cibo, acqua, riparo e armi…» «Hanno di più,» disse Aton. «Hanno tutta la nostra documentazione, salvo i dati che raccoglieremo quest’oggi. Quei documenti significheranno tutto per il prossimo ciclo, ed è soprattutto quel materiale che dovrà salvarsi. Il resto, può andare in malora.» Theremon si lasciò sfuggire un lungo sibilo e rimase per diversi minuti in silenzio, a meditare. Gli uomini intorno al tavolo avevano tirato fuori una scacchiera multipla, e avevano iniziato una partita a sei. Le mosse venivano fatte con rapidità e in silenzio. Tutti gli occhi erano fissi sulla scacchiera, in furiosa concentrazione. Theremon osservò i giocatori, assorto, poi si alzò e si avvicinò ad Aton, che sedeva in disparte, a discutere sottovoce con Sheerin. «Sentite» disse, rivolgendosi a entrambi, «andiamo da qualche altra parte, così non disturberemo gli altri. Vorrei farvi alcune domande.» L’anziano astronomo lo guardò con fiero cipiglio, ma Sheerin saltò su di scatto. «Sicuro, sicuro. Parlare mi farà bene. Fa sempre bene. Aton mi stava dicendo delle ipotesi che gli ha esposto sulla reazione mondiale, in caso di fallimento della predizione; e io sono d’accordo con lei. Tra parentesi, sono un assiduo lettore della sua rubrica, e in linea di massima condivido le sue idee.» «Per favore, Sheerin» borbottò Aton. «Eh? Ah, sì sì. Andremo nella stanza accanto. Tra l’altro, le sedie sono più comode.» C’erano alcune poltrone imbottite, nella stanza attigua. C’erano anche pesanti tendaggi rossi alle finestre e un tappeto amaranto per terra. Con la luce rossiccia che Beta riversava dall’esterno, l’effetto generale faceva pensare a sangue rappreso. Theremon rabbrividì. «Povero me, darei dieci crediti per una dose decente di luce bianca, almeno per un minuto. Vorrei che Gamma e Delta fossero là in cielo.» «Quali sono le domande?», disse Aton. «La prego, tenga presente che il nostro tempo è limitato. Tra poco più di un’ora e un quarto andremo di sopra, dopo di che non avremo più tempo per parlare.» «Bene, ecco qua.» Theremon si appoggiò allo schienale e incrociò le braccia. «Tutti voialtri sembrate così convinti di questa storia che anch’io comincio a crederci. Ora, le dispiacerebbe spiegarmi di che cosa si tratta, esattamente?» Aton esplose. «Ma come! E ha il coraggio di venire a dirmi che, finora, voi della stampa ci avete bombardati di ridicolo senza nemmeno tentare di capire quello che noi cercavamo di spiegarvi?» Il giornalista abbozzò un sorrisetto impacciato. «Be’, non esageriamo, caro direttore. Un’idea generale io ce l’ho. Voialtri asserite che, tra poche ore, ci sarà l’Oscurità totale e che l’intera umanità verrà colta da una violenta forma di pazzia. Ma io voglio sapere, ora, la spiegazione scientifica.» «No, no e no, per l’amor del cielo» interruppe Sheerin. «Se lei fa una domanda del genere a Aton, ammesso che lui abbia voglia di risponderle, si sentirà rovesciare addosso pagine di cifre e volumi di grafici. Cose che per lei non avranno né capo né coda. Ora, se la domanda la rivolgesse a me, invece, io potrei fornirle il punto di vista del profano.» «D’accordo: la rivolgerò a lei.» «In tal caso, debbo prima bagnarmi la gola.» Lo psicologo si fregò le mani e guardò Aton. «Acqua?» domandò Aton, scorbutico. «Non diciamo assurdità!» «Lei, non dica assurdità. Niente alcool, oggi. Sarebbe troppo facile fare ubriacare i miei uomini. Non posso permettermi di tentarli.» Lo psicologo borbottò qualcosa di incomprensibile. Si girò verso Theremon, lo trafisse con i suoi occhi penetranti e cominciò: «Lei saprà, naturalmente, che la storia della civilizzazione su Lagash mostra un carattere ciclico: e dico proprio ciclico!» «Lo so» replicò Theremon, cauto, «che questa è la teoria archeologica corrente. È stata accettata come dato di fatto?» «Siamo lì. In quest’ultimo secolo, ha riscosso generali consensi, diciamo. Questo carattere ciclico è o meglio, era uno dei grandi misteri. Abbiamo individuato altre civilizzazioni, di cui nove in modo definitivo e altre attraverso svariate indicazioni, e sappiamo che tutte avevano raggiunto vertici paragonabili ai nostri e che tutte, senza eccezioni, vennero distrutte dal fuoco quando erano ormai all’apice della loro cultura. E nessuno poteva dire perché. Tutti i centri di cultura furono totalmente cancellati dal fuoco, senza che rimanesse un solo indizio sufficiente a illuminarci sulla causa.» Theremon seguiva attentamente. «Non c’è stata un’Età della Pietra, anche?» «È probabile, ma finora non se ne sa niente, in pratica, tranne che gli uomini di quell’epoca erano poco più che scimmioni dotati d’intelligenza. È un particolare che possiamo anche lasciare da parte.» «D’accordo. Continui.» «Sono state date spiegazioni di queste catastrofi ricorrenti, tutte di natura più o meno fantastica. Alcune parlano di periodiche piogge di fuoco; altre sostengono che, ogni dato periodo, Lagash passi attraverso un sole; e ce ne sono di ancora più sballate. Ma c’è una teoria, completamente diversa dalle altre, che si tramanda da alcuni secoli.» «Lo so. Lei allude al mito delle “Stelle” che i cultisti hanno nel loro Libro delle Rivelazioni.» «Precisamente» confermò Sheerin, soddisfatto. «I cultisti dicevano che ogni duemilacinquant’anni Lagash entrava in un’immensa caverna, così che tutti i soli scomparivano, e che su tutto il mondo calava l’oscurità totale! Poi, a sentir loro, apparivano cose chiamate Stelle, che derubavano gli uomini della loro anima e li lasciavano simili a bruti privi di raziocinio, al punto da distruggere la civiltà che essi stessi avevano costruito. Naturalmente, tutto questo si mescola con una quantità di elementi misticoreligiosi, ma l’idea centrale è quella.» Seguì una breve pausa in cui Sheerin prese un lungo respiro. «E ora, veniamo alla Teoria della Gravitazione Universale.» Pronunciò quelle parole in modo da far risaltare le maiuscole; e, a questo punto, Aton si staccò dalla finestra, sbuffò senza ritegno e uscì dalla stanza. I due lo seguirono con lo sguardo, poi Theremon domandò: «Che cosa c’è?»«Niente di speciale» rispose Sheerin. «Due degli assistenti dovevano essere qui già da diverse ore e non si sono ancora visti. Aton è tremendamente a corto di personale, naturalmente, perché tutti quelli che contano veramente sono andati nel Rifugio.» «Non c’è pericolo che quei due abbiano disertato, no?» «Chi? Faro e Yimot? No, naturalmente. Tuttavia, se non saranno qui entro un’ora, le cose si complicheranno.» Sheerin si alzò, all’improvviso, e gli occhi gli brillavano. «Intanto, visto che Aton è andato di là…» Andò in punta di piedi fino alla finestra più vicina, si accoccolò sui calcagni e, dall’armadietto sotto il davanzale, estrasse una bottiglia di liquido rosso, che gorgogliò in modo suggestivo quando lui la scosse. «Ma guarda, credevo che Aton non ne sapesse niente» osservò, mentre tornava verso il tavolino. «Qua! Abbiamo un solo bicchiere, per cui, come ospite, lo cedo a lei. Per me terrò la bottiglia.» E riempì il bicchierino con giudiziosa parsimonia. Theremon fece l’atto di protestare, ma Sheerin lo squadrò severamente: «Un po’ di rispetto per gli anziani, giovanotto.» Il giornalista tornò a sedersi, con espressione preoccupata. «Coraggio, allora, vecchio ribaldo.» Il pomo d’Adamo dello psicologo andava su e giù, mentre la bottiglia s’inclinava sempre più verso l’alto; poi, con un grugnito di soddisfazione e facendo schioccare le labbra, Sheerin riprese: «Ma lei che cosa ne sa, poi, di gravitazione?» «Niente, tranne che è una scoperta piuttosto recente, una teoria non del tutto definita, e che comporta cognizioni matematiche quanto mai complicate, al punto che soltanto una dozzina di individui, su tutto Lagash, pare siano in grado di capirci qualcosa.» «Sciocchezze! Pallonate! Posso riassumerle io, in una frase, tutto il concetto essenziale. La Legge della Gravitazione Universale afferma che, tra tutti i corpi dell’universo, esiste una forza di coesione, tale che il quantitativo di detta forza, tra due corpi qualsiasi, è proporzionale al prodotto delle loro masse diviso per il quadrato della distanza che li separa.» «Tutto qui?» «L’essenziale! Ci sono voluti quattrocento anni, per arrivarci.» «Perché tanto tempo? Sembra abbastanza semplice, così come l’ha esposta lei.» «Perché le grandi leggi fisiche non vengono suggerite da lampi di ispirazione, checché lei ne pensi. In genere, ci vuole il lavoro combinato di un mondo pieno di scienziati e un periodo di secoli. Dopo che Genovi 41 scoprì che era Lagash a ruotare intorno al sole Alpha e non viceversa e questo quattrocento anni fa gli astronomi hanno lavorato molto. I moti complessi dei sei soli sono stati registrati, analizzati e scomposti. Una teoria dopo l’altra si è fatta strada, è stata controllata e ricontrollata, poi modificata e abbandonata oppure ripresa e trasformata in un’altra. Un lavoro d’inferno, mi creda.» Theremon assentiva pensosamente, porgendo il bicchiere. A malincuore, Sheerin lasciò che poche gocce colassero dalla bottiglia. «Soltanto vent’anni fa» riprese, dopo avere inumidito anche la propria gola, «venne finalmente dimostrato che la Legge della Gravitazione Universale spiegava esattamente i movimenti orbitali dei sei soli. Fu un grande trionfo.» Sheerin si alzò e andò alla finestra, sempre tenendo stretta la bottiglia. «E adesso arriviamo al punto. Nell’ultimo decennio, il moto di Lagash in rapporto ad Alfa venne calcolato secondo la gravità, e il risultato non corrispondeva all’orbita osservata; nemmeno dopo avere incluso nei calcoli tutte le perturbazioni dovute agli altri soli. O la legge non era valida, o c’era da tener conto di un altro fattore, ancora sconosciuto.» Theremon andò a raggiungere Sheerin presso la finestra e scrutò in lontananza, oltre i pendii boscosi, dove le guglie di Saro City rosseggiavano con bagliori sanguigni all’orizzonte. Nel gettare una breve occhiata a Beta, il giornalista sentì la tensione dell’incertezza aumentare dentro di sé. Beta splendeva rossastro allo zenith, rimpicciolito e sinistro. «Continui, professore» mormorò. «Gli astronomi» riprese Sheerin, «brancolarono alla cieca per anni, facendo a gara nel proporre teorie sballate, finché Aton ebbe l’ispirazione di consultare il Culto. Il capo del Culto, Sor 5, aveva accesso ad alcuni dati che semplificavano notevolmente il problema. Aton si mise al lavoro, seguendo una nuova pista. E se, mettiamo, vi fosse stato un altro corpo planetario opaco, oltre Lagash? In questo caso, lei capisce, avrebbe potuto splendere soltanto di luce riflessa e, se fosse stato composto di roccia bluastra, come lo è per gran parte Lagash, ecco che, nella luminosità del cielo, l’eterno ardere dei soli l’avrebbe reso invisibile: l’avrebbe inghiottito del tutto.» Theremon zufolò a fior di labbra. «Che idea pazzesca!» «Pazzesca, dice lei? Stia a sentire: supponiamo che questo corpo ruotasse attorno a Lagash a distanza tale, seguendo un’orbita tale e avendo tale massa per cui la sua attrazione giustificasse perfettamente le deviazioni di Lagash dalla sua orbita teorica: lo sa, lei, che cos’accadrebbe?» L’altro scosse la testa. «Bene, a volte questo corpo verrebbe a trovarsi tra Lagash e uno dei soli» e Sheerin vuotò d’un sorso quello che restava nella bottiglia. «Cosa che succederà, immagino» disse Theremon, tagliando corto. «Già! Ma un unico sole si trova sul suo piano di rivoluzione.» Con il pollice, Sheerin accennò all’astro rimpicciolito, su in alto. «Beta! Ed è stato dimostrato che l’eclisse ricorre soltanto quando la disposizione dei soli è tale per cui Beta resta solo nel suo emisfero nonché alla distanza massima, momento in cui la luna si trova invariabilmente alla distanza minima. L’eclisse che ne consegue, con la luna sette volte il diametro apparente di Beta, si estende su tutto Lagash e dura più di mezza giornata, per cui non c’è punto del pianeta che si sottragga agli effetti. E questa eclisse si verifica una volta ogni duemilaquarantanove anni.» Il volto di Theremon era una maschera inespressiva. «Dovrei scrivere questo, nel mio articolo?» Lo psicologo assentì. «Sì, è tutto qui. Prima l’eclisse che comincerà fra tre quarti d’ora poi l’Oscurità universale e, forse, quelle misteriose Stelle: infine, la follia, e la fine del ciclo.» Sheerin meditò per qualche istante. «Avevamo ben due mesi di vantaggio, noi, qui all’Osservatorio, ma non sono stati sufficienti a convincere Lagash del pericolo. Forse neppure due secoli sarebbero bastati. Ma tutti i nostri dati sono nel Rifugio, e oggi fotograferemo l’eclisse. Il prossimo ciclo potrà partire in vantaggio, sapendo già la verità e, quando si verificherà la prossima eclisse, l’umanità sarà finalmente pronta ad affrontarla. Ora che ci penso, anche questo è da includere nell’articolo.» Un leggero vento agitò le tende della finestra quando Theremon la spalancò e si sporse. Il giornalista sentiva l’aria gelida passargli tra i capelli, mentre fissava la propria mano, illuminata da una luce color cremisi. Poi, rientrò, come per un improvviso scatto di ribellione. «Che cosa c’è nell’Oscurità che debba per forza farmi impazzire?» Sheerin sorrideva tra sé mentre, con gesto distratto, giocherellava con la bottiglia vuota. «Lei ha mai sperimentato l’Oscurità, giovanotto?» Il giornalista si appoggiò contro la parete, riflettendo. «No. Non posso dire d’averla sperimentata. Ma so che cos’è. Una semplice… ecco…» accennava movimenti vaghi con le dita e, all’improvviso, s’illuminò. «Una semplice assenza di luce, come nelle caverne.» «È mai stato in una caverna?» «In una caverna? No, naturalmente!» «Lo immaginavo. Io ho tentato, la settimana scorsa, tanto per farmi un’idea, ma sono scappato fuori di corsa. Mi sono addentrato fin dove la bocca della caverna era appena appena visibile, come una macchia di luce, e intorno a me tutto era buio pesto. Non avrei mai creduto che una persona della mia mole potesse correre tanto velocemente.» Theremon abbozzò un sorriso. «Bene, se è per questo, penso che io non sarei scappato, al posto suo.» Lo psicologo studiò il giovane, con aria visibilmente seccata. «Non si dia tante arie! La sfido a tirare le tende.» Theremon si mostrò sorpreso. «E perché? Se là fuori ci fossero quattro o cinque soli, potremmo anche abbassare un poco la luce, per riposare gli occhi, ma ora di luce ce n’è già troppo poca.» «È questo il punto. Tiri le tende, come le ho detto, poi venga a sedersi qui.» «Come vuole.» Theremon allungò la mano verso il cordone scorrevole e tirò. La tenda rossa scivolò attraverso l’ampia vetrata, mentre gli anelli di ottone slittavano sibilando lungo l’asta metallica, e una penombra violacea calò pesantemente sulla stanza. I passi di Theremon echeggiavano nel silenzio, mentre egli si dirigeva verso il tavolo; poi, a mezza strada, si arrestarono. «Non la vedo, professore» bisbigliò il giovane. «Venga avanti a tentoni» ordinò Sheerin, con voce strozzata. «Ma non riesco a vederla, professore.» Il giornalista respirava a fatica. «Non vedo niente.» I passi ricominciarono, avvicinandosi incerti, esitanti. Si udì il rumore di qualcuno che armeggiava intorno a una sedia. La voce di Theremon risonò di nuovo, debolmente: «Eccomi. Sto… ehm… sto benissimo.» «Le piace, sì?» «N-no. È orribile. Sembra che le pareti si…» Una pausa. «Ho come l’impressione che mi vengano addosso. Mi viene l’istinto di spingerle in là. Ma non sto diventando pazzo! Anzi, l’impressione a poco a poco si attenua.» «Sta bene. Riapra pure le tende.» Di nuovo il rumore di passi cauti, nel buio, l’annaspare di Theremon contro la tenda, mentre cercava il cordone a tentoni, e infine il trionfante fruscio della tenda che si apriva. La luce rossa inondò la stanza e, con un’esclamazione di gioia, Theremon guardò verso il sole. Sheerin si asciugò con il dorso della mano la fronte sudata, e osservò con voce tremante: «Ed era soltanto una stanza buia.» «Ma è una cosa sopportabile» disse Theremon, con disinvoltura. «Sì, una stanza buia lo è. Ma c’è stato, lei, alla Mostra Centennale di Jonglor, due anni fa?» «No, purtroppo non sono riuscito ad andarci. Novemila chilometri sono davvero un viaggio troppo lungo, perfino per visitare la Mostra.» «Bene, io sì. Ma avrà almeno sentito parlare del “Tunnel del Mistero”, che superò tutti i record di affluenza nel parco divertimenti: per il primo mese o due, per lo meno.» «Sì. Non vi fu un certo trambusto, in proposito?» «Poco, però. La cosa venne messa a tacere. Vede, il “Tunnel del Mistero” era lungo poco più di un chilometro: senza luci. Si saliva su un’automobilina scoperta e, per un quarto d’ora si filava attraverso l’Oscurità. Un passatempo che piacque molto… finché durò.» «Piaceva molto?» «Sicuro. C’è del fascino nell’essere spaventati, quando questo fa parte del gioco. Il bambino nasce con tre paure istintive: dei rumori forti, del cadere e dell’assenza di luce. Per questo è considerato tanto divertente, precipitarsi incontro a qualcuno, gridando “Buu!”. Ed ecco perché è così divertente salire su un otto volante. E, sempre per questo, il “Tunnel del Mistero” da principio fece faville. La gente usciva dall’Oscurità senza fiato, tremante, mezza morta di paura, ma continuava a pagare per riprovare la stessa emozione.» «Sì, sì, aspetti. Ora ricordo. Qualcuno uscì di là privo di vita, vero? Per lo meno, così ho sentito dire, in seguito alla chiusura del tunnel.» Sheerin alzò le spalle. «Bah! Due o tre morti: una cosa da poco! Le famiglie vennero indennizzate e il consiglio comunale di Jonglor fu convinto a lasciar cadere la cosa. In fin dei conti, dicevano gli organizzatori, se una persona debole di cuore vuole entrare nel tunnel lo fa a suo rischio e pericolo. E poi, vennero prese delle misure. Misero un medico di guardia, nella biglietteria, e chi voleva salire su una di quelle automobiline doveva prima sottoporsi a una visita di controllo. Questo fece salire materialmente alle stelle la vendita dei biglietti.» «Bene, e allora?» «Ma c’era dell’altro, vede. A volte la gente usciva di là in condizioni perfette, salvo che rifiutava di entrare nei luoghi chiusi: in qualsiasi luogo chiuso, compresi i palazzi, le ville, gli appartamenti, le capanne, le cabine e perfino le tende.» Theremon sembrava colpito. «Insomma, rifiutavano di stare al chiuso? E dove dormivano?» «All’aperto.» «Be’, ma… avrebbero dovuto costringerli a rientrare.» «Oh, lo fecero, lo fecero. Ragion per cui, quelle persone venivano prese da violente crisi isteriche e facevano del loro meglio per fracassarsi il cranio contro la parete più vicina. Una volta portati al chiuso, era impossibile tenerceli senza ricorrere all’uso della camicia di forza o di una massiccia dose di tranquillanti.» «Ma allora erano pazzi!» «Pazzi, sì, esattamente. Su dieci persone che entravano in quel tunnel, almeno una si riduceva in quello stato. Chiamarono in aiuto gli psicologi, e noialtri facemmo la sola cosa possibile: quella di chiudere la mostra.» Sheerin allargò le braccia. «Che cos’era successo a quella gente?» domandò alla fine Theremon. «In pratica, la stessa cosa capitata a lei poco fa, quando, nel buio, ha avuto l’impressione che le pareti volessero schiacciarla. C’è un termine psicologico per indicare l’istintiva paura dell’uomo per l’assenza della luce: “claustrofobia”. Noi la chiamiamo così perché la mancanza di luce è sempre connessa con gli spazi chiusi, per cui il timore di una cosa equivale al timore dell’altra. Capisce?» «E quelli del tunnel?» «Quelli del tunnel erano, in particolare, malcapitati la cui mente non possedeva l’elasticità necessaria per superare il senso di claustrofobia da cui erano assaliti nell’Oscurità. Un quarto d’ora senza luce è lungo a passare; lei, poco fa, è rimasto al buio soltanto due o tre minuti, e ho avuto l’impressione che fosse piuttosto sconvolto. Quelli del tunnel soffrivano di un disturbo che noi chiamiamo “fissazione claustrofobica”. In loro, la paura latente dell’Oscurità si era cristallizzata ed era diventata attiva, nonché, per quanto ne sappiamo, permanente. Ecco che cosa possono fare quindici minuti passati nell’Oscurità.» Seguì un lungo silenzio, e la fronte di Theremon si aggrottava sempre di più. «Fino a questo punto! Non posso crederlo.» «Dica piuttosto che non vuole crederlo» scattò Sheerin. «Lei ha paura di crederlo. Guardi fuori della finestra!» Theremon obbedì e lo psicologo continuò, senza nemmeno una pausa: «Immagini l’Oscurità… dappertutto. Niente luce, per quello che le è dato vedere. Case, alberi, campi, terra, cielo… tutto nero! E per di più le Stelle, a quanto dicono, qualunque cosa siano. Riesce a concepirlo?» «Sì, riesco» dichiarò Theremon, in tono lugubre. Al che, Sheerin calò il pugno sul tavolo, con improvvisa violenza. «Mente! Non riesce a concepirlo! Il suo cervello non è stato costruito per una concezione del genere, proprio come non è in grado di concepire l’eternità o l’infinito. Lei può soltanto parlarne. Una frazione della realtà è sufficiente a sconvolgerla e, quando questa realtà subentrerà in tutta la sua concretezza, il suo cervello si troverà davanti a un fenomeno che esula dai limiti della sua comprensione. Lei impazzirà, in modo completo e permanente! Non c’è alcun dubbio, ha capito?» Poi, con tristezza, aggiunse: «E un altro paio di millenni di lotta penosa sfumeranno nel nulla. Domani, in tutto il pianeta Lagash, non rimarrà una sola città intatta.» Theremon aveva ritrovato parte del suo equilibrio mentale. «Ma no, non è detto! Ancora non vedo perché dovrei diventare matto solo perché non c’è neppure un sole in cielo… ma, quand’anche accadesse, e impazzissero tutti gli altri, come questo potrebbe danneggiare le città? Che cosa succederà, le faremo saltare in aria?» Ma Sheerin non si calmava. «Se lei fosse nell’Oscurità, che cosa chiederebbe più di qualsiasi altra cosa, che cosa invocherebbe, con tutte le forze? La luce, maledizione, la luce!» «Ebbene?» «E in che modo, potrebbe ottenere la luce?» «Non lo so» replicò Theremon, in tono categorico. «Qual è il solo modo di ottenere la luce, a prescindere dai soli?» «Cosa vuole che ne sappia?» Erano fermi faccia a faccia, naso a naso, quasi. «Si brucia qualcosa, egregio signore» disse Sheerin. «Non ha mai visto un fuoco, lei? Non ha mai partecipato a un campeggio, non ha mai cotto uno stufato con un fuoco di legna? Il calore non è la sola cosa che si ottiene, bruciando della legna: il fuoco manda anche luce, e la gente lo sa. E quand’è buio tutti vogliono luce, e sono decisi ad averla.» «E così, bruciano la legna?» «Bruciano tutto quello che trovano sottomano. Debbono fare luce. Debbono bruciare qualcosa, e se la legna non è a portata di mano bruciano la prima cosa che trovano. Loro avranno la luce… e ogni centro abitato se ne andrà in fiamme!» I loro occhi non si lasciavano un istante, come se l’intera questione fosse una faccenda personale dipendente dalle rispettive forze di volontà, finché Theremon, senza parole, distolse lo sguardo. Aveva il respiro ansante e irregolare e quasi non si accorgeva dell’improvviso trambusto che si sentiva nella stanza attigua, al di là della porta chiusa. Sheerin ruppe il silenzio, e dovette fare uno sforzo per dare alla voce un tono ragionevole. «Mi pare d’avere udito la voce di Yimot. Probabilmente lui e Faro sono tornati. Andiamo a sentire come mai sono così in ritardo.» «Ma sì, andiamo pure» mormorò Theremon. Tirò un lungo respiro e parve scuotersi tutto. La tensione era rotta. La stanza era in tumulto, tutto il personale era raggruppato intorno ai due giovanotti che cercavano di far fronte al fiume di domande con le quali venivano assaliti e, contemporaneamente, si liberavano degli indumenti esterni. Aton irruppe tra la ressa e affrontò rabbiosamente i nuovi arrivati. «Vi rendete conto che manca meno di mezz’ora al termine massimo? Dove siete stati?» Faro 24 si mise a sedere e si fregò le mani per scaldarsele. Aveva le guance rosse per il gelo esterno. «Yimot e io abbiamo appena terminato di condurre in porto un piccolo esperimento audace tutto nostro. Avevamo tentato di vedere se si riusciva a simulare l’impressione di Oscurità e di Stelle, tanto per avere già un’idea di che effetto facessero.» Fra gli astanti si levò un mormorio confuso, mentre un improvviso interesse si accendeva negli occhi di Aton. «Di questo non si era mai parlato. Come avete fatto per riuscirci?» «Ecco,» disse Faro, «l’idea era venuta a Yimot e a me già da diverso tempo, e avevamo lavorato al progetto nelle ore libere. Yimot sapeva di una certa casa, in città, a un solo piano e con il tetto a cupola: un tempo era stata usata come museo, credo. In ogni modo, l’abbiamo acquistata…» «E dove avete trovato il denaro?» domandò Aton, in tono perentorio. «L’abbiamo prelevato dai nostri conti» borbottò Yimot 70. «La casa è costata duemila crediti.» Poi, in tono di difesa: «Be’, e con questo? Domani, duemila crediti saranno duemila pezzi di carta. Tutto qui.» «Naturale» confermò Faro. «Abbiamo comperato il padiglione e l’abbiamo tutto rivestito di velluto nero, in modo da ottenere un’Oscurità quanto più perfetta possibile. Poi, abbiamo aperto piccoli fori nel soffitto, e li abbiamo coperti con tanti coperchi di metallo, in modo da poterli aprire tutti contemporaneamente, manovrando un’unica leva. Questo, naturalmente, non l’abbiamo fatto da soli: abbiamo chiamato un falegname, un elettricista e qualche altro operaio; il denaro non aveva più importanza. L’essenziale era di riuscire a far penetrare la luce da quei buchi nel tetto, così da poter ottenere un effetto stellare.» Nessuno osava tirare il respiro, durante la pausa che seguì. In tono duro, Aton osservò: «Non avevate il diritto di fare un esperimento privato…» Faro sembrava mortificato. «Lo so, professore… Ma, francamente, Yimot e io lo ritenevamo un esperimento un po’ pericoloso. Se l’effetto avesse funzionato, quasi ci aspettavamo di impazzire: stando a quanto afferma Sheerin, lo ritenevamo molto probabile. Volevamo essere i soli a correre il rischio. Naturalmente, se avessimo scoperto di poter conservare l’equilibrio mentale, c’era la speranza che questo potesse immunizzarci contro l’esperienza vera e propria, dopo di che tutti voi avreste potuto sottoporvi alla stessa profilassi. Ma la cosa non ha funzionato per niente…» «Perché, cos’è successo?» Fu Yimot a rispondere. «Ci siamo chiusi dentro e abbia mo lasciato che i nostri occhi si assuefacessero all’Oscurità. È una sensazione estremamente snervante, perché l’Oscurità totale dà l’impressione che pareti e soffitto vogliano soffocarti. Ma siamo riusciti a superarla e abbiamo tirato la leva. I cappellotti si sono aperti e, nel soffitto, abbiamo visto splendere tanti puntini di luce…» «Ebbene?» «Ebbene… niente. Era proprio quello il punto debole dell’esperimento. Non è successo niente. Era solo un tetto con tanti buchi, né più né meno che questo. Abbiamo riprovato tante volte per questo siamo così in ritardo ma l’effetto non c’è stato mai.» Seguì un silenzio scandalizzato, e tutti gli occhi erano rivolti verso Sheerin, che sedeva immobile, a bocca aperta. Theremon fu il primo a parlare. «Lo sa, vero, Sheerin, che fine fa a questo punto tutta la sua teoria?» Sorrideva di sollievo. Ma Sheerin alzò una mano. «Un momento, un momento. Datemi il tempo di riflettere.» Poi, fece schioccare le dita e, quando sollevò la testa, nel suo sguardo non c’era né sorpresa né incertezza. «Ma è naturale…» Non poté finire. Da un punto, su in alto, era arrivato un violento rumore metallico, e Beenay scattò in piedi e si precipitò su per le scale con un: «Ma che diavolo…!» Gli altri lo seguirono. Tutto accadde nel giro di pochi istanti. Una volta su nella cupola, Beenay gettò un’occhiata inorridita alle lastre fotografiche in frantumi e all’uomo che vi stava chino sopra; poi, si lanciò inferocito sull’intruso, afferrandolo per la gola. Seguì una mischia selvaggia, mentre tutto il personale accorreva a dare man forte, e lo sconosciuto venne inghiottito e schiacciato dal peso di mezza dozzina di individui furenti. Aton si alzò dal mucchio, ansando penosamente. «Tiratelo su!» Gli altri fecero largo, a malincuore, e lo sconosciuto, con il respiro affannoso, gli abiti laceri e la fronte ammaccata, venne tirato su di peso. Aveva una barbetta bionda, arricciata con cura nella foggia ostentata dai cultisti.Beenay, che ora lo aveva afferrato saldamente per il colletto, lo scosse in malo modo. «Allora, verme, che cosa sei venuto a fare, qui? Quelle lastre…» «Non ero qui per quelle» ribatté gelidamente il cultista. «È stato un incidente.» Beenay seguì lo sguardo di fuoco dell’altro, poi esplose: «Capisco. Eri qui proprio per le macchine fotografiche. Allora l’incidente delle lastre è stato una vera fortuna, per te. Se avessi toccato la mia impagabile Bertha o qualcuna delle altre, ora moriresti fra atroci torture. Così, invece…» Beenay levava il pugno, preparandosi a colpire. Aton lo trattenne, afferrandolo per la manica. «Fermo! Lo lasci andare!» Il giovane tecnico vacillò, lasciò ricadere il braccio, a malincuore. Aton lo spinse in là e si piantò davanti al cultista. «Lei è Latimer, vero?» Il cultista accennò un rigido inchino e indicò il simbolo che portava al fianco. «Sono Latimer 25, aiutante di terza classe di sua serenità Sor 5.» «E…» Aton inarcava le bianche sopracciglia «ed era con sua serenità quando, la settimana scorsa, venne a farmi visita. Vero?» Latimer s’inchinò una seconda volta. «Allora, che cosa desidera?» «Niente che lei sia disposto a darmi di sua spontanea volontà.» «È stato Sor 5 a mandarla, immagino… o l’idea è stata sua?» «È una domanda alla quale non risponderò.» «Ci saranno altri visitatori?» «Non risponderò nemmeno a questa.» Aton consultò l’orologio e si accigliò. «Insomma, che cosa vuole da me Sor 5? Io ho tenuto fede ai patti, da parte mia.» Latimer sorrise lievemente, ma non fece commenti. «Gli avevo chiesto dei dati che soltanto il Culto poteva fornire» continuò Aton, irritandosi, «e mi sono stati forniti. Di questo, gli sono grato. In cambio, ho promesso di dimostrare la verità essenziale che sta alla base del Culto.» «Non c’era nessun bisogno di dimostrarla» fu l’orgogliosa risposta. «A provarla, basta il Libro delle Rivelazioni.» «Per le poche convinzioni che costituiscono il Culto, sì. Non finga di equivocare su ciò che dico. Mi sono offerto di presentare uno sfondo scientifico per il vostro credo. E l’ho fatto!» Il cultista socchiudeva le palpebre, amareggiato. «L’ha fatto, sì… con sottigliezza volpina, perché le sue affermazioni facevano, sì, da sfondo al nostro credo ma, al tempo stesso, lo rendevano perfettamente superfluo. Lei ha fatto dell’Oscurità e delle Stelle dei fenomeni naturali, privandoli di tutto il loro valore. Una vera bestemmia, la sua.» «In questo caso, la colpa non è mia. I fatti sono quelli che sono. Che altro posso fare se non dichiararli?» «I suoi “fatti” sono soltanto un inganno, una truffa.» Aton, furente, pestò un piede a terra. «Lei che cosa ne sa?» E la risposta venne con la certezza della fede assoluta. «Lo so!» Il direttore divenne cianotico e Beenay mormorò qualcosa, concitatamente. Aton, con un gesto, gli impose di tacere. «E Sor 5 che cosa vorrebbe che facessimo? È sempre convinto, immagino, che nel cercare di avvertire il mondo, affinché prenda delle misure contro la minaccia della follia, stiamo mettendo a repentaglio milioni e milioni di anime. Bene, non ci siamo riusciti, se questo può fargli piacere.» «Il tentativo in sé ha già fatto abbastanza danno, e i vostri sforzi perversi per ottenere informazioni, ricorrendo ai vostri strumenti diabolici, debbono essere sventati. Noi obbediamo alla volontà delle Stelle, e io deploro soltanto che la mia goffaggine mi abbia impedito di mettere fuori uso quei congegni infernali.» «Distruggerli non le sarebbe servito a molto» ribatté Aton. «Tutti i nostri dati, salvo la prova diretta che intendiamo raccogliere ora, sono già stati messi al sicuro e niente può danneggiarli, ormai.» Sorrise, trucemente. «Ma questo non migliora la situazione, per lei, che rimane un ladro e un criminale, anche se ha fallito il colpo.» Si girò verso quelli che gli stavano alle spalle. «Qualcuno chiami la polizia di Saro.» Da Sheerin venne un’esclamazione di disgusto. «Ma Aton, che cosa le prende, maledizione! Non c’è tempo di far questo, ora. Andiamo…» si fece avanti, con importanza, «lasci che di questa faccenda mi occupi io!» Aton fissò lo psicologo dall’alto in basso. «Ci risparmi le sue trovate geniali, Sheerin, non è il momento. Vuole usarmi la cortesia di lasciarmi fare a modo mio? Al momento lei è un perfetto estraneo, qui, e non se ne dimentichi.» Sheerin fece una smorfia eloquente. «Ma scusi, perché dovremmo prenderci il disturbo, tra l’altro impossibile, di chiamare la polizia ricordiamoci che l’eclisse di Beta è questione di minuti, ormai quando questo giovanotto è perfettamente disposto a darci la sua parola d’onore che rimarrà qui, senza causarci altro disturbo?» Prontamente, il cultista intervenne: «Non farò niente del genere, io. Siete liberi di fare come credete, ma reputo doveroso avvertirvi che, non appena ne avrò l’occasione, finirò quello che ero venuto a fare. Se è sulla mia parola che fate affidamento, vi consiglio di chiamare la polizia.» Sheerin sorrise, amabilmente. «Lei ha la testa dura, vero? Bene, le spiegherò una cosa. Vede quel signore vicino alla finestra? È un pezzo di giovanotto, abilissimo nell’usare i pugni, e per di più non fa parte dell’ambiente. Una volta cominciato l’eclisse, non avrà altro da fare che tenerla d’occhio. E ci sarò anch’io, a dargli una mano: un po’ troppo corpulento per essere un buon lottatore, ma ancora in grado di dare man forte.» «Bene, e con questo?» domandò Latimer, gelido. «Vedrà! Non appena avrà inizio l’eclisse, dicevo, Theremon e io la prenderemo di peso e la chiuderemo dentro uno sgabuzzino. È uno stanzino cieco, con un lucchetto grande così sull’unica porta e senza finestra. La lasceremo là per tutta la durata dell’eclisse.» «E in seguito» ansimò inferocito Latimer, «non ci sarà più nessuno che venga ad aprirmi. So quanto voi che cosa significhi l’apparizione delle Stelle: anzi, lo so meglio di voi. Quando sarete tutti impazziti, non mi libererete di certo. Soffocazione o morte lenta per fame, è così? Più o meno quello che avrei dovuto aspettarmi, da un gruppo di scienziati! Ma la mia parola non ve la do. È una questione di principio, e non intendo discuterne oltre.» Aton sembrava turbato. I suoi occhi sbiaditi esprimevano sgomento. «Via, Sheerin, chiuderlo poi sarebbe…» «La prego!» Con impazienza, Sheerin gli fece cenno di tacere. «Non credo affatto che si debba arrivare a tal punto. Latimer ha solo tentato un piccolo bluff. Abile, sì, ma io non sono uno psicologo solo perché mi piace il suono della parola.» Sorrideva al cultista. «Andiamo, lei non pensa certo che io sia tipo da imporre qualcosa come la morte per inedia. Mio caro Latimer, se io la chiudo nello sgabuzzino, lei non vedrà l’Oscurità e, soprattutto, non vedrà le Stelle. Non occorre essere addentro alle convinzioni fondamentali del Culto per rendersi conto che, per lei, il non poter vedere le Stelle, quando appariranno, significa perdere l’anima immortale. Ora, io la considero un uomo di parola. Se mi prometterà, sul suo onore, che non tenterà in alcun modo di disturbare l’attività dei miei amici, io le crederò.» Una vena pulsava sulla tempia di Latimer, che parve rattrappirsi quando, disse con voce sorda: «E va bene, parola d’onore!» Poi, in un accesso di furore, aggiunse: «Mi consola soltanto il pensiero che sarete tutti dannati per quello che farete oggi.» Girò sui tacchi e si diresse verso l’alto sgabello a tre gambe, presso la porta. Sheerin fece cenno al giornalista. «Vada a sedersi accanto a lui, Theremon… per semplice formalità. Theremon, dico a lei!» Ma il giornalista non si mosse. Perfino le labbra, gli si erano sbiancate. «Là, guardate!» L’indice che puntava verso il cielo tremava, la voce era rauca e alterata. Si udirono esclamazioni soffocate simultanee, mentre tutti seguivano con lo sguardo quell’indice puntato e, per un attimo, s’irrigidivano, trattenendo il respiro. Beta appariva scheggiato da una parte! Il minuscolo frammento di oscurità intaccava il disco luminoso appena per la grandezza di un’unghiata, ma agli occhi degli osservatori sembrò ingigantirsi fino a diventare un baratro. Solo per un attimo si attardarono a fissarlo, e immediatamente dopo si scatenò un trambusto che cedette subito il campo a un ordinato via vai di attività: ciascuno occupava il posto assegnato. Al momento cruciale, non c’era tempo per emozionarsi. Gli uomini ridiventavano scienziati, con un lavoro da svolgere. Perfino Aton si era dileguato. Sheerin osservò, senza scomporsi: «Il primo contatto dev’essere avvenuto quindici minuti fa. Un po’ in anticipo ma… niente male, se consideriamo le inesattezze che i calcoli generalmente comportano.» Si guardò attorno, poi si avvicinò in punta di piedi a Theremon, rimasto inchiodato vicino alla finestra, e lo trascinò via dolcemente. «Aton è furibondo» bisbigliò, «perciò stia alla larga da lui. Ha perso il primo contatto, per colpa della confusione creata da Latimer, e se lei farà tanto da intralciargli il passo, la scaraventerà giù dalla finestra.» Theremon assentì brevemente e andò a sedersi. Meravigliato, Sheerin lo fissava. «Perbacco, ragazzo» esclamò, «lei sta tremando!» «Eh?» Theremon si inumidì le labbra aride, poi si sforzò di sorridere. «Non mi sento molto bene, lo confesso.» Gli occhi dello psicologo s’indurirono. «Non si perderà di coraggio, spero.» «No!» gridò Theremon, con improvvisa indignazione. «Mi dia tempo, che diamine! Non avevo mai creduto a questa storia non del tutto, per lo meno e non ci credevo fino a pochi minuti fa. Mi dia il tempo di abituarmi all’idea. Voialtri avete avuto due mesi a disposizione, per prepararvi.» «Sì, su questo ha ragione» replicò pensosamente Sheerin. «Senta! Ha famiglia, lei? Genitori, moglie, bambini?» Theremon scuoteva la testa. «Allude al Rifugio, immagino. No, non deve preoccuparsi di questo. Ho una sorella, ma è a tremila chilometri di distanza. Non conosco nemmeno il suo indirizzo esatto.» «Be’, perché non ci va lei, allora? Il tempo di arrivarci ce l’ha, e c’è un posto libero, visto che sono venuto via io. In fin dei conti, qui non c’è nessun bisogno di lei, e se c’è un elemento che meriterebbe di salvarsi…» Theremon guardava l’altro con aria stanca. «Mi crede spaventato a morte, vero? Bene, caro signore, si metta in mente che sono un giornalista, e che ho avuto l’incarico di fare un servizio su questa storia. E intendo farlo, capisce?» Sul volto dello psicologo spuntò un sorriso. «Capisco, sì. Orgoglio professionale, giusto?» «Lo chiami come vuole. Ma creda, amico, darei il braccio destro per un’altra bottiglia di quel rosolio, grande magari la metà di quella che si è scolato lei. Se mai qualcuno ha avuto bisogno di un beveraggio, quello sono io.» S’interruppe. Sheerin gli stava dando violenti colpi col gomito. «Non ha sentito? Ascolti!» Theremon guardò nella direzione che Sheerin gli indicava col mento e fissò il cultista che, ignorando tutto quello che lo circondava, con un’espressione di fanatica esaltazione sulla faccia, borbottava tra sé, cantilenando. «Che cosa sta dicendo?» bisbigliò il giornalista. «Cita il Libro delle Rivelazioni, capitolo quinto» rispose Sheerin. Poi, con urgenza: «Stia calmo e ascolti, le dico.» La voce del cultista aumentava di tono, man mano che aumentava il fervore. «E così avvenne che in quei giorni il Sole, Beta, vegliasse solitario nel cielo per periodi sempre più lunghi, via via che le rivoluzioni passavano; fino al momento in cui, per mezza rivoluzione, esso solo, rattrappito e gelido, splendette sopra Lagash. «E tutti si riunirono lungo le strade e le pubbliche piazze, per discutere e meravigliarsi a quella vista, poiché uno strano abbattimento si era impossessato di loro. Le menti erano turbate, i discorsi confusi, poiché le anime degli uomini aspettavano l’avvento delle Stelle. «E avvenne che nella città di Trigon, a mezzogiorno, Vendret 2 si facesse avanti per dire agli uomini di Trigon: “Guai a voi, peccatori! Ora voi schernite le vie dei giusti, ma il momento di ricredersi è ormai vicino. Già la Caverna si avvicina, che inghiottirà Lagash; sì, e con esso tutto ciò che contiene”. «E avvenne che, mentre egli così parlava, la bocca della Caverna dell’Oscurità sfiorò l’orlo di Beta, così che, a tutto Lagash, fu nascosta la vista del sole. Alte risonarono le grida degli uomini mentre il sole svaniva, e grande fu il timore per l’anima che cadde sopra di essi. «E avvenne così che l’Oscurità della Caverna si stese sopra Lagash, e su tutta la superficie di Lagash non c’era più luce. Gli uomini erano come ciechi, né l’uno poteva scorgere il suo vicino, sebbene ne sentisse l’alito sulla faccia. «E in quell’Oscurità apparvero le Stelle, innumerevoli, e si levò una musica di tale bellezza che le foglie degli alberi gridavano di meraviglia. «E in quel momento le anime degli uomini si dipartirono da essi, e i corpi abbandonati dallo spirito divennero come di bestie; sì, come di belve della foresta; così che attraverso le strade buie delle città di Lagash essi si aggiravano con grida selvagge. «E dalle Stelle scese allora la Fiamma Celeste e, dove essa lambiva, le città di Lagash ardevano fino alla distruzione, così che dell’uomo e dell’opera dell’uomo più niente restava. «Ma avvenne, però…» Subentrò un lieve mutamento nel tono di Latimer. Gli occhi erano ancora fissi, ma in qualche modo egli aveva percepito l’attenzione assorta degli altri due. Facilmente, senza una pausa per riprendere fiato, il timbro della voce si alterò e le sillabe divennero più liquide. Theremon, colto di sorpresa, sgranò gli occhi. Le parole rasentavano la familiarità. C’era uno spostamento indefinibile nell’accento, un piccolo mutamento nella lunghezza delle vocali; niente di più e, tuttavia, Latimer era divenuto assolutamente incomprensibile. Sheerin sorrideva, sornione. «Si è messo a parlare nella lingua di qualche antico ciclo, probabilmente quella del secondo ciclo, tradizionale per loro. Era il linguaggio in cui, in origine, era stato scritto il Libro delle Rivelazioni.» «Non importa, ho sentito abbastanza.» Theremon spinse indietro la sedia e si lisciò i capelli con mani che non tremavano più. «Ora mi sento molto meglio.» «Sul serio?» Sheerin sembrava sorpreso. «Direi proprio di sì. Poco fa, ero stato preso da un attacco di nervi. Ero stato ad ascoltare lei e i suoi discorsi sulla gravitazione, così, nel vedere l’inizio dell’eclisse, per poco non ho perso la testa. Ma questo…» indicava con disprezzo il barbuto cultista, «questo fa parte delle cose che mi raccontava la mia bambinaia. In vita mia ho sempre riso di cose di questo genere. A questo punto, non intendo più lasciarmi intimorire.» Respirò profondamente e aggiunse, con gaiezza febbrile: «Però, se voglio che i miei nervi facciano bella figura, sarà meglio che mi giri con le spalle verso la finestra.» «D’accordo» disse Sheerin, «ma si ricordi di parlare sottovoce. Un momento fa, Aton ha tirato fuori la testa da quella specie di scatola in cui si è rinchiuso, e le ha lanciato un’occhiata che avrebbe dovuto incenerirla.» Theremon fece una smorfia. «Chi se lo ricordava più, il vegliardo.» Con molta cura girò la sedia in modo da voltare le spalle alla finestra, gettò uno sguardo disgustato dietro di sé e osservò: «A pensarci bene, dev’esserci un’immunità considerevole nei riguardi della cosiddetta follia stellare.» Lì per lì lo psicologo non rispose. Beta aveva oltrepassato lo zenith, ormai; il riquadro di luce color sangue che la finestra proiettava sul pavimento si era spostato, e cadeva ora proprio in grembo a Sheerin. Questi fissava assorto quella luce crepuscolare; poi si chinò e scrutò in direzione dell’astro stesso. La macchia scura si era molto allargata e ora copriva un terzo di Beta. Sheerin rabbrividì e, quando tornò a raddrizzarsi, le sue guance non sembravano più tanto colorite. Con un sorriso che era quasi di scusa, girò a sua volta la sedia. «Ci saranno di sicuro due milioni di persone, a Saro City, tutte decise a unirsi al Culto per un improvviso, collettivo risveglio di fede.» Poi, in tono ironico: «Eh, il Culto sta per vivere un’ora di popolarità senza pari. Ho idea che i cultisti cercheranno di ricavarne tutto il possibile. Allora, che cosa mi stava dicendo?» «Dicevo semplicemente questo. Come hanno fatto, i cultisti, a tramandarsi il Libro delle Rivelazioni di ciclo in ciclo, e come mai il libro venne scritto, in un primo momento? Doveva ben esserci una forma di immunità perché, se fossero impazziti tutti, chi ci sarebbe rimasto a compilare il libro?» Sheerin fissava con aria assorta il suo interlocutore. «Be’, ecco, giovanotto, non esiste una testimonianza diretta che possa rispondere alla sua domanda, però un’idea di come possono essere andate le cose ce l’abbiamo. Vede, esistono tre categorie di individui in grado di rimanere piuttosto indifferenti alla cosa. Prima di tutto, quelli che non vedono affatto le Stelle: i ritardati mentali o quelli che, al principio dell’eclisse, si sono ubriacati ben bene e sono rimasti ubriachi fradici fino alla fine. Quelli li lasciamo da parte, perché non sono veri e propri testimoni. «Poi, ci sono i bambini al di sotto dei sei anni, per i quali il mondo è troppo nuovo e strano, nel suo complesso, perché l’Oscurità e le Stelle possano veramente spaventarli. Per loro, fenomeni simili debbono apparire solo una novità di più in un mondo già sorprendente. Su questo lei è d’accordo, vero?» L’altro assentiva, dubbioso. «Mah, diciamo di sì.» «Infine, ci sono coloro le cui menti sono troppo rozze e primitive perché qualcosa possa veramente scuoterli. Difficilmente chi è privo di sensibilità è portato a reagire: oh, parlo di gente come i nostri contadini più anziani, provati dal lavoro e dalla fatica. Bene, i bambini avranno avuto ricordi labili, e questi, combinati con i balbettii confusi e incoerenti dei mentecatti di vario genere, avranno formato le basi di quello che poi è diventato il Libro delle Rivelazioni. «Naturalmente, in un primo tempo si sarà basato sulle testimonianze dei meno qualificati a servire da storici; vale a dire, bambini e adulti semideficienti; poi, attraverso i cicli, avrà subito diverse alterazioni.» «Lei» lo interruppe Theremon, «crede che si siano tramandati il testo attraverso i cicli nel modo in cui noi pensiamo di tramandare i segreti della gravitazione?» Sheerin si strinse nelle spalle. «Può darsi, ma stabilire esattamente il metodo non è importante. In un modo o nell’altro, ci sono riusciti. Il punto al quale volevo arrivare è che il libro, anche se si basa su fatti, non può essere che una massa di verità distorte. Per esempio, ricorda l’esperimento dei buchi nel tetto tentato da Faro e Yimot: quello che poi non ha funzionato?» «Sì.» «Le dico io perché non ha fun…» Sheerin s’interruppe e si alzò, allarmato, perché Aton si stava avvicinando, con la faccia stravolta. «Cosa succede?»Aton lo trasse in disparte e Sheerin sentì vibrare le dita che gli stringevano il gomito. «Parli piano!» La voce di Aton era bassa e irriconoscibile. «Ho appena ricevuto notizie dal Rifugio, sulla linea privata.» Subito in ansia, Sheerin lo aggredì: «Hanno guai?» «Non loro» Aton calcò sul pronome in tono significativo. «Loro si sono chiusi dentro una mezz’ora fa e rimarranno là, isolati, fino a dopodomani. Sono al sicuro, loro. Ma la città, Sheerin… un vero disastro. Non ha idea…» Aton faceva fatica a parlare. «Be’, e con questo?» scattò spazientito Sheerin. «Tra poco sarà anche peggio. Perché trema così?» Poi, insospettito: «Come si sente?» Gli occhi di Aton si accesero di collera per l’insinuazione, poi l’ansia tornò ad avere il sopravvento. «Non ha capito. I cultisti si sono scatenati. Sobillano la gente, istigandola ad assaltare l’Osservatorio: promettendo loro la grazia, la salvezza dell’anima… promettendo di tutto, insomma. Che cosa facciamo, Sheerin?» A testa china, durante un lungo momento di concentrazione, Sheerin rimase a fissarsi la punta dei piedi. Si batté il mento con una nocca, poi rialzò lo sguardo e disse, con asprezza: «Fare? Che cosa vuol fare? Niente. Lo sanno, gli altri?» «No, no, non lo sanno!» «Bene! Lasciamo le cose così. Quanto manca all’Oscurità totale?» «Meno di un’ora.» «Non c’è che rischiare e sperare in bene. Ci vuole tempo per organizzare una turba che possa farci paura, e altro tempo per farla arrivare fin qui. Siamo a circa nove chilometri dalla città…» Fissava fuori della finestra, laggiù in fondo ai pendii, dove le fattorie cedevano il posto agli agglomerati di case bianche dei sobborghi; laggiù dove la metropoli in sé non era che una striscia confusa all’orizzonte: una nebbia nello sfolgorio morente di Beta. Senza girare la testa, ripeté: «Ci vorrà tempo. Continuiamo a lavorare e preghiamo perché la totalità dell’eclisse arrivi prima di loro.» Beta appariva tagliato a metà e la linea di divisione formava una leggera concavità nella parte ancora luminosa dell’astro. Era come se una gigantesca palpebra si chiudesse lentamente sopra la luce del mondo. I rumori e i fruscii della stanza svanivano alle sue orecchie, ed egli avvertiva soltanto il denso silenzio dei campi, all’esterno. Gli insetti stessi sembravano muti per il terrore. E le cose si distinguevano appena. Trasalì, quando una voce risonò al suo orecchio. «Qualcosa non va?» Era Theremon. «Eh? No, no… niente. Torniamo a sederci. Qui diamo fastidio.» Se ne tornarono al loro angolo ma, per un bel pezzo, lo psicologo non parlò. Si infilava il dito nel colletto, per allentarselo. Ogni tanto torceva il collo in qua e in là, ma senza trovare sollievo. All’improvviso, rialzò lo sguardo. «Prova qualche difficoltà a respirare?» Il giornalista sgranò tanto d’occhi e provò a respirare a fondo due o tre volte. «Io no. Perché?» «Ho guardato fuori troppo a lungo, penso. La penombra mi ha suggestionato. La difficoltà di respiro è uno dei primi sintomi di un attacco di claustrofobia.» Theremon provò di nuovo a tirare il fiato. «Be’, io per ora non sento niente. Guardi, c’è un altro degli uomini dell’Osservatorio.» Beenay aveva inserito la sua voluminosa persona tra la finestra e i due seduti nell’angolo, e Sheerin guardò subito in su, ansiosamente. «Salve, Beenay.» L’astronomo spostò il peso della persona da un piede all’altro e sorrise, debolmente. «Non vi dispiace se mi siedo un po’ qui a chiacchierare, vero? Ho finito di mettere a punto i miei obiettivi, e non ho più niente da fare, fino alla totalità.» Tacque e guardò il cultista, che da circa un quarto d’ora aveva estratto dalla manica un libriccino rilegato in pelle e sembrava sprofondato nella lettura. «Quel verme non ha più dato noia, vero?» Sheerin scosse la testa. Teneva le spalle ben erette e aggrottava la fronte, tutto concentrato nello sforzo di respirare regolarmente. «Lei, Beenay, ha avuto qualche difficoltà di respiro?» domandò. A sua volta, Beenay provò a tirare il fiato. «Non mi sembra che manchi l’aria, veramente.» «Un piccolo attacco di claustrofobia» spiegò Sheerin, come per scusarsi. «Ahhh! No, su me ha un effetto diverso. Ho l’impressione che gli occhi mi vadano in dentro. Vedo tutto confuso e… be’, le cose mi appaiono sfuocate. E poi, fa freddo.» «Ah, sì, fa freddo. Questa non è un’impressione.» Theremon fece una smorfia. «Sento i piedi come se li tenessi dentro una cella frigorifera.» «L’importante» disse Sheerin, «è di tenere la mente occupata, parlando d’altro. Un momento fa, Theremon, le stavo dicendo perché l’esperimento di Faro, quello dei buchi nel tetto, non è servito praticamente a niente.» «Già, aveva appena cominciato a parlarne» confermò Theremon. Si circondò le ginocchia con le braccia e vi appoggiò sopra il mento. «Bene, come dicevo, l’errore è stato di prendere il Libro delle Rivelazioni alla lettera. Probabilmente, non c’è senso nell’attribuire un significato materiale alle Stelle. Può anche darsi, capite, che in presenza dell’Oscurità totale la mente senta il bisogno di creare luce. Le Stelle, perciò, potrebbero essere soltanto frutto di un’illusione.» «In altre parole» intervenne Theremon, «le Stelle, secondo lei, sarebbero il risultato della follia, non la causa. Allora, a che scopo Beenay scatterà fotografie?» «Per dimostrare che è tutta un’illusione, per esempio; oppure per dimostrare il contrario, si vedrà. O ancora…» Fu interrotto da Beenay che aveva avvicinato la sedia, e la cui espressione, improvvisamente, si era animata. «Ehi, sono contento che abbia tirato in ballo l’argomento.» Alzò l’indice, socchiudendo le palpebre. «Ho riflettuto molto su quelle Stelle, e m’è venuta un’ispirazione interessante. È campata in aria, intendiamoci, mi guarderei bene dal prenderla sul serio, ma non è male, secondo me. Vuole che gliela dica?» Sembrava incerto, ma Sheerin si lasciò andare contro lo schienale e disse: «Coraggio, sì! Sono tutto orecchi.» «Bene, allora, supponiamo che vi siano altri soli, nell’universo.» Beenay s’interruppe, con un po’ di timidezza. «Voglio dire, soli che siano così distanti per cui la luce non si veda, tanto arriva fioca. Ora lei penserà che abbia letto qualcuno di quei libri di fantasia, scommetto.» «No, e perché? D’altra parte, questa possibilità che lei dice, non sarebbe eliminata dal fatto che, secondo la Legge di Gravità, la loro presenza sarebbe resa evidente dalla loro stessa forza d’attrazione?» «No, se fossero abbastanza lontani» replicò Beenay. «Ma proprio lontani lontani, mettiamo quattro anni luce, o anche più. Non saremmo mai in grado di avvertirne le perturbazioni, in questo caso, perché sarebbero troppo piccole. Mettiamo che ve ne fossero parecchi, di questi soli lontani: una dozzina o due, magari.» «Bell’idea per un articolo sul supplemento domenicale,» disse Theremon, con un fischio. «Due dozzine di soli in un universo della vastità di otto anni luce. Ohilà! Allora sì che il nostro mondo apparirebbe piccolo e insignificante. I lettori se la divorerebbero, una storia così.» «È soltanto un’idea» disse Beenay, con un sorriso, «però afferrate il concetto, vero? Durante un eclisse, quelle dozzine di soli diventerebbero visibili perché non sarebbero inghiottiti da una luce vera e propria. Essendo così lontani, ci apparirebbero piccolissimi, come tante biglie, diciamo. Si sa che i cultisti parlano di milioni di Stelle, ma probabilmente esagerano. Manca il posto materiale, nell’universo, per farci stare un milione di soli… a meno che non stessero uno addosso all’altro.» Sheerin aveva ascoltato con crescente interesse. «C’è del buono nella sua idea, Beenay. E l’esagerazione è esattamente quello che dobbiamo aspettarci. La nostra mente, come lei probabilmente saprà, non riesce ad afferrare in modo concreto un numero più alto di cinque; sopra di quello, c’è solo il concetto di “molti”. Una dozzina potrebbe benissimo diventare un milione. Ma sì, l’idea è ottima, Beenay!» «E ho anche un’altra ideuzza divertente» disse Beenay. «Professore, ha mai pensato come sarebbe semplice il problema della gravitazione se soltanto avessimo un sistema sufficientemente semplice? Supponiamo d’avere un universo in cui ci sia un pianeta con un unico sole. Il pianeta descriverebbe un’ellisse perfetta e l’esatta natura della forza gravitazionale sarebbe così evidente da venire accettata come un assioma. Su un mondo così, gli astronomi scoprirebbero la gravità forse prim’ancora d’avere inventato il telescopio. L’osservazione a occhio nudo sarebbe sufficiente.» «Ma un sistema così, sarebbe dinamicamente stabile?» obiettò Sheerin, dubbioso. «Oh, sì! Lo chiamano il caso dell’uno e uno. È stato dimostrato matematicamente, ma sono le implicazioni filosofiche, quelle che m’interessano.» «Pensarlo come un’astrazione è divertente,» ammise Sheerin. «Un po’ come un gas perfetto, o lo zero assoluto.» «Naturalmente» continuò Beenay, «c’è il guaio che la vita sarebbe impossibile, su un pianeta così. Non ci sarebbe abbastanza luce e calore, e poi, in un sistema come quello, per metà della giornata una parte del pianeta resterebbe totalmente al buio, per effetto della rotazione. In simili condizioni è inutile sperare nello sviluppo della vita, che dipende fondamentalmente dalla luce. E inoltre…» Sheerin lo interruppe scortesemente, scattando in piedi e respingendo la sedia, che si rovesciò. «Aton ha tirato fuori le luci.» «Eh?» disse Beenay, girandosi a guardare; poi, con evidente sollievo, sorrise. Aton reggeva tra le braccia una mezza dozzina di cannucce dello spessore di due o tre centimetri e lunghe una trentina. Da sopra la bracciata di cannucce, guardava severamente il personale riunito. «Tornate al lavoro, su. Sheerin, venga qui ad aiutarmi!» Sheerin si affrettò a portarsi accanto all’anziano astronomo e, una per una, in assoluto silenzio, i due sistemarono le cannucce dentro appositi sostegni di metallo fissati alle pareti. Con la solennità di chi compie la fase più sacra di un cerimoniale liturgico, Sheerin sfregò un grosso e rozzo fiammifero, facendone scaturire fuoco, poi lo passò ad Aton, che accostò la fiamma all’estremità superiore di una delle bacchette. La fiamma indugiò un poco lassù, scherzando oziosamente con la punta, finché un bagliore improvviso e crepitante inondò di luce giallastra i lineamenti di Aton. L’astronomo ritirò il fiammifero e un evviva spontaneo fece tremare le finestre. La cannuccia era sormontata da dieci centimetri di fiamma vacillante. Metodicamente, vennero accese le altre cannucce, finché sei fuochi indipendenti brillarono giallognoli in fondo alla stanza. La luce era debole, molto più debole della tenue luce di Beta. Le fiamme oscillavano assurdamente, dando vita a ombre ubriache e danzanti. Le torce fumavano tremendamente e puzzavano come quando, in cucina, il mangiare brucia. Ma emettevano una luce gialla. C’era qualcosa di strano nella luce gialla, dopo quattro ore di cupo e rosso Beta. Perfino Latimer aveva sollevato gli occhi dal libro e fissava, affascinato. Sheerin si riscaldava le mani alla fiamma più vicina, incurante della fuliggine che gli si raccoglieva sulle dita, e intanto mormorava entusiasticamente tra sé: «Bello! Bello! Non mi ero mai reso conto di che bel colore fosse il giallo.» Ma Theremon osservava le torce con occhio sospettoso. «Che cosa sono quegli arnesi?» «Pezzi di legno» spiegò Sheerin, sbrigativo. «Oh, no, niente affatto! Non bruciano. Soltanto la punta si carbonizza, e la fiamma arde come se uscisse dal nulla.» «Sta lì il bello. È un meccanismo veramente efficiente per produrre luce artificiale. Ne abbiamo fatti a centinaia, ma la maggior parte è stata data a quelli del Rifugio, naturalmente. Vede…» si girò e si ripulì con il fazzoletto le mani annerite, «si prende la polpa interna delle canne acquatiche, si fa seccare ben bene e si imbeve di grasso animale. Poi si accosta la fiamma e così il grasso, a poco a poco, continua a bruciare. Queste torce bruceranno circa mezz’ora, ininterrottamente. Ingegnoso, vero? È un’invenzione che dobbiamo a uno dei nostri assistenti dell’Università di Saro.» Dopo il primo momento di osservazione, nella cupola era tornata la quiete. Latimer aveva portato il suo sgabello proprio sotto una delle torce e aveva ripreso a leggere, movendo le labbra in una monotona cantilena di invocazione alle Stelle. Beenay si era di nuovo allontanato verso le sue macchine fotografiche e Theremon approfittava di quella pausa per completare i suoi appunti per l’articolo che avrebbe scritto il giorno dopo sul Chronicle di Saro City: procedimento che stava seguendo già da due ore in maniera perfettamente metodica, perfettamente coscienziosa e, se ne rendeva conto, perfettamente inutile. Ma, come indicava il luccichio divertito negli occhi di Sheerin, prendere diligentemente appunti gli teneva la mente occupata, distraendolo dal fatto che il cielo stava lentamente diventando di un amaranto violaceo e orribile, quasi fosse stato una gigantesca barbabietola appena sbucciata; ragion per cui, un’utilità quell’operazione l’aveva. L’aria, in un certo senso, si era fatta più densa. Il crepuscolo, simile a un’entità palpabile, penetrava nella stanza, e i tremolanti cerchi di luce gialla attorno alle torce si stagliavano sempre più vividi contro l’oscurità circostante. C’era odore di fumo e, bruciando, le torce emettevano piccoli scoppiettii; c’erano i passi smorzati di uno degli uomini che, in punta di piedi, si spostava attorno al tavolo sul quale lavorava; c’era, di tanto in tanto, qualcuno che tratteneva il respiro, cercando di mantenere la calma in un mondo che si stava ritirando nell’ombra. Fu Theremon il primo a captare un rumore estraneo. Era una vaga, disorganizzata “sensazione” di suono, che sarebbe passata inosservata se, nella cupola, non avesse regnato il silenzio più assoluto. Il giornalista alzò la testa e mise via il taccuino. Con il fiato sospeso, ascoltò; poi, con evidente riluttanza, si fece strada tra il solarscopio e una delle macchine fotografiche di Beenay e si fermò davanti alla finestra. Il silenzio andò in frantumi, al suo grido di sgomento: «Sheerin!» Il lavoro cessò. Lo psicologo, in un attimo, fu accanto a Theremon. Aton lo imitò. Perfino Yimot 70, lassù sul seggiolino e intento a osservare dall’oculare del solarscopio, smise quello che stava facendo, per guardar giù.Fuori, Beta era soltanto una scheggia incandescente, che sembrava gettare un ultimo disperato sguardo su Lagash. L’orizzonte a est, in direzione della città, era immerso nel buio, e la strada da Saro all’Osservatorio era un segmento rosso scuro fiancheggiato a tratti da boschi, i cui alberi, persa l’individualità, si erano fusi in un’unica massa d’ombra. Ma era la strada in sé quella che attirava l’attenzione, poiché di là avanzava un’altra e infinitamente più minacciosa massa d’ombra. Con voce alterata, Aton gridò: «I pazzi della città! Stanno arrivando!» «Quanto manca alla totalità?» domandò Sheerin. «Quindici minuti ma… loro saranno qui in cinque.» «Non importa. Lei rimanga al lavoro con i suoi uomini. Noi penseremo a tenerli a bada. Questo posto è costruito come una fortezza. Aton, non perda d’occhio quel cultista, non si sa mai. Theremon, venga con me.» Sheerin si era già precipitato fuori, seguito da Theremon. Le scale scendevano sotto di loro in volute circolari, che si perdevano attorno alla tromba centrale fino a sparire in un pauroso grigiore indistinto. Il primo impeto della corsa li aveva fatti scendere di alcuni metri, così che il debole e vacillante giallore proveniente dalla porta aperta della cupola era scomparso e, sopra e sotto di loro, gravavano le stesse ombre. Sheerin si fermò, si portò la mano grassoccia al petto. Gli occhi gli schizzavano dalle orbite e la voce gli usciva rotta, affannosa: «Non posso… respirare… Scenda lei… Chiuda tutte le porte…» Theremon scese qualche altro scalino, poi si voltò. «Aspetti! Può resistere un minuto?» Anche lui ansimava. L’aria entrava e usciva dai suoi polmoni densa come melassa, e nella sua mente si era insinuato il panico al pensiero di calarsi in quell’oscurità misteriosa, da solo. Theremon aveva paura del buio! «Rimanga qui» disse. «Torno tra un istante.» Corse su, facendo gli scalini a due a due, con il cuore in gola, e non solo per lo sforzo; rientrò a precipizio nella cupola, afferrò una delle torce, sfilandola dal supporto. Puzzava, mandava un fumo denso che gli entrava negli occhi, quasi accecandolo; ma lui la stringeva come se avesse voluto baciarla per la gioia, e la fiamma veniva spinta all’indietro dall’aria mentre egli si precipitava di corsa giù per gli scalini. Sheerin aprì gli occhi e mandò un gemito, quando Theremon si chinò sopra di lui. Theremon lo scosse, senza cerimonie. «Avanti, si faccia coraggio. Abbiamo la luce.» Reggeva alta la torcia e, spingendo lo psicologo per il gomito, continuava a scendere, protetto dal cerchio di luce. Negli ambienti al piano terreno filtrava ancora quel poco di luce che rimaneva all’esterno, e Theremon sentì diminuire il suo senso di orrore. «Presto» disse in tono brusco, passando la torcia a Sheerin. «Li sente, là fuori?» Si sentivano. Le grida, rauche, arrivavano a tratti. Ma Sheerin aveva ragione: l’Osservatorio era costruito come una fortezza. Eretto nel secolo precedente, quando lo stile architettonico neoGavottiano era arrivato al colmo della sua bruttura, era stato progettato per la durata e la stabilità, più che per ragioni estetiche. Le finestre erano protette da spesse grate di ferro bene incassate nel cemento. Le pareti erano in solida muratura che nemmeno un terremoto avrebbe potuto scuotere, e la porta principale era di robustissima quercia rinforzata con spranghe di ferro. Theremon chiuse i lucchetti, che andarono a posto con un sordo clangore. All’altra estremità del corridoio, Sheerin imprecava tra sé. Indicava la serratura della porta posteriore, che era stata messa fuori uso. «Sarà stato Latimer, dev’essere passato da qui» disse. «Be’, non stia lì impalato» gridò spazientito Theremon. «Mi aiuti a trascinare i mobili, e stia attento a non cacciarmi quella torcia negli occhi. Fa un fumo spaventoso.» Intanto, spingeva un pesante tavolo contro la porta e, di lì a due minuti, aveva già eretto una barricata che, se mancava di bellezza e di simmetria, aveva in compenso tutta l’inerzia della propria massiccia consistenza. Fiocamente, come in lontananza, udivano ora un battere di pugni sul legno del portone; e le urla e le grida, all’esterno, avevano qualcosa di irreale.La turba si era mossa da Saro City con due sole cose in mente: la salvezza promessa dai cultisti, da ottenere con la distruzione dell’Osservatorio, e la paura folle che eccitava i nervi, invece di paralizzarli. Non c’era stato tempo di pensare a veicoli, ad armi, a nominare capi o a organizzarsi in qualche modo. Si erano diretti verso l’Osservatorio a piedi e ora lo assalivano con le mani nude. E, adesso che erano arrivati, l’ultimo guizzo di Beta, l’ultima stilla di fiamma, vacillava debolmente sopra un’umanità cui era rimasto soltanto un terrore puro, universale! «Torniamo su, nella cupola!» gemette Theremon. Nella cupola, soltanto Yimot, al solarscopio, aveva conservato il suo posto. Gli altri erano raggruppati intorno alle macchine fotografiche, e Beenay impartiva istruzioni con voce rauca e strozzata. «State bene attenti, voialtri. Scatto Beta un attimo prima della totalità e cambio la lastra. Voialtri rimarrete uno per obiettivo. Sapete tutto su… sui tempi di posa…» Si udì un mormorio di consenso. Beenay si passò una mano sugli occhi. «Sono ancora accese le torce? Sì, sì, non importa, ora le vedo!» Si appoggiava con tutto il peso alla spalliera di una sedia. «Statemi bene a sentire… non preoccupatevi delle inquadrature. Non perdete tempo per scattare due stelle alla volta o che so io. Una è sufficiente. E se… se vi sentite impazzire, allontanatevi dalle macchine fotografiche!» Sulla soglia, Sheerin bisbigliò a Theremon: «Mi porti da Aton. Non lo vedo.» Lì per lì il giornalista non rispose. Le sagome vaghe degli astronomi vacillavano e si facevano confuse, e in alto le torce erano diventate semplici chiazze giallognole. «È buio» piagnucolò. Sheerin tendeva la mano. «Aton!» Barcollò in avanti. «Aton!» Theremon lo raggiunse, lo afferrò per un braccio. «Aspetti, la guido io.» Alla meglio, riuscì ad avanzare attraverso la stanza. Chiudeva gli occhi contro l’Oscurità e la mente contro il caos che l’Oscurità comportava. Nessuno li udiva o badava a loro. Sheerin urtò contro una parete. «Aton!» Lo psicologo sentì mani tremanti che lo toccavano, poi si ritiravano, mentre una voce mormorava: «È lei, Sheerin?» «Aton!» Sheerin si sforzava di respirare normalmente. «Non si preoccupi della turba. Il posto resisterà.» Latimer, il cultista, si alzò in piedi, la faccia contratta dalla disperazione. Aveva dato la sua parola, e infrangerla avrebbe voluto dire mettere a repentaglio la salvezza dell’anima. D’altronde, quella promessa gli era sta estorta, non era stata data liberamente. Tra poco sarebbero apparse le Stelle! Non poteva starsene inerte, permettere… e tuttavia, aveva dato la sua parola d’onore. Beenay aveva il volto soffuso di luce violacea, mentre guardava l’ultimo raggio di Beta, e Latimer, vedendo che l’assistente tornava poi a chinarsi sopra l’obiettivo, prese la sua decisione. Si conficcò le unghie nelle palme, per raccogliere il coraggio. Barcollò disperatamente, prima di slanciarsi. Davanti a lui non c’era altro che tenebra; il pavimento stesso, sotto i suoi piedi, mancava di consistenza. Poi, qualcuno gli fu sopra, e cadde, mentre dita di ferro lo stringevano alla gola. Sferrò una ginocchiata al suo assalitore. «Lasciami, o ti uccido.» Theremon mandò un grido acuto, poi imprecò, accecato dal dolore: «Lurido traditore maledetto!» Il giornalista divenne all’improvviso consapevole di tutto, contemporaneamente. Udì Beenay esclamare, rauco: «Ci siamo. Ai vostri obiettivi, ragazzi!» e all’istante si sentì assalire dalla strana certezza che anche l’ultimo brandello di sole, dopo essersi assottigliato, era scomparso. Nello stesso tempo, udì un’ultima esclamazione soffocata di Beenay e uno strano grido di Sheerin: una risata isterica che finì in una specie di rantolo… infine il silenzio improvviso, un arcano, mortale silenzio che veniva dall’esterno. Latimer si era intinto afflosciato nella sua stretta ormai lenta. Theremon guardò gli occhi del cultista e li vide bianchi, fissi, rivolti verso l’alto, resi lucenti dal fievole chiarore delle torce. Vide la bolla di saliva formarsi sul labbro di Latimer e udì il lamento rauco, animalesco, che gli sfuggiva dalla gola. Cedendo al fascino della paura, si sollevò su un gomito e alzò lo sguardo verso la tenebra agghiacciante, al di là della finestra. In quella tenebra, splendevano le Stelle! Non le pallide tremilaseicento stelle visibili agli occhi di un terrestre; Lagash si trovava proprio al centro di un grappolo gigantesco. Trentamila potentissimi astri risplendevano di un fulgore che feriva l’anima, più spaventosamente gelido, nella sua orrenda indifferenza, del vento tagliente che spirava invisibile attraverso un mondo freddo, orribilmente informe. Theremon si rialzò barcollante, con la gola chiusa che gli impediva il respiro e tutti i muscoli contratti da un’intensità di terrore e di panico al di là di ogni sopportazione. Stava per impazzire e lo sapeva, e in un angolo sperduto del suo cervello un ultimo frammento di lucidità stava dibattendosi, per arginare l’ondata irrefrenabile di terrore. Era orribile diventare pazzo e sapere di impazzire: sapere che, tra un istante, sarebbe stato lì, fisicamente, e tuttavia la sua vera essenza si sarebbe spenta, sarebbe stata inghiottita da una nera follia. Poiché quella era l’Oscurità: l’Oscurità, il Gelo e la Fine. Le luminose pareti dell’universo erano andate in frantumi e i loro orribili e neri frammenti piovevano dall’alto a seppellirlo, a schiacciarlo, ad annullarlo. Urtò contro qualcuno che strisciava sulle mani e sulle ginocchia, ma riuscì chissà come a scavalcarlo. Portandosi le mani alla gola torturata, incespicò verso la fiamma delle torce che riempivano la sua visione folle. «Luce!» urlò. Aton, chissà dove, stava piangendo, frignando orribilmente come un bambino terrorizzato. «Stelle… tutte le Stelle… noi non sapevamo niente. Non sapevamo affatto. Credevamo che sei stelle in un universo fossero tante. Adesso è l’Oscurità per sempre, per sempre, e le pareti crollano su di noi e noi non sapevamo, non potevamo sapere…» Qualcuno tentò di afferrare l’ultima torcia, che cadde e si spense. Nel buio totale, l’orribile luccichio degli astri indifferenti parve più vicino. Ma fuori, verso Saro City, un chiarore rosso cominciava a spandersi, si faceva sempre più intenso, e non era quello di un sole. La lunga notte era calata di nuovo.